IL PRETE
Guida della comunità
adeguata al tempo
A questo punto, siamo veramente davanti a constatazioni che non potranno non sorprenderci. Il riferimento è al prete che "vede" il proprio compito nella consapevolezza che nella comunità cristiana ci si sostiene a vicenda, senza subordinazione degli uni e una superiorità degli altri" ("Il Regno" XLVI, 4. pp 488). II passo biblico al quale si rifa è 2Cor 1,24: "Noi non intendiamo far da padroni sulla nostra fede; siamo invece i collaboratori della vostra gioia, perché nella fede voi siete già saldi". Preti di questa categoria non cercano di nascondere" una preferenza per la struttura carismatica della Chiesa.
Un servizio presbiterale è pensato come un ministero che si differenzia quantitativamente, ma non qualitativamente dagli altri servizi ecclesiali.
La pastorale è vista e vissuta come cura e accompagnamento umanamente prossimo alla vicenda delle persone" ("II "Regno" ib.). Ma, allora, ci si dovrà spiegare la natura gerarchica della Chiesa, che presuppone una subordinazione all'autorità costituita in essa da Cristo: autorità, siamo d'accordo, non di dominio, e subordinazione non da legionario romano o da "obbedienza cieca".
Una comunità dove il capo non si assume volentieri compiti "direttivi" è una famiglia senza padre, o senza madre. E vero che l'analogia non è esatta, non trattandosi, nel nostro caso, di figli minorenni. Ma, e sia detto liberamente, anche quando i figli sono grandi e fanno ancora parte della famiglia di origine, non devono, forse, adeguarsi al primo vero responsabile, che resta sempre il padre? Pleonastico aggiungere che nemmeno qui è più ammissibile parlare di dominio dittatoriale, come in altri tempi, sia per la famiglia naturale che per quella ecclesiale.
Andrebbero messe sempre più a fuoco, questo sì, le maniere di esercitare qualsiasi compito direttivo, senza arroganza, anzi con l'umiltà richiesta ed esercitata da Cristo.
Anche "ll Regno" ammette che "il più grande pericolo che corre la guida della comunità adeguata al tempo è di schiacciarsi completamente sulla comunità parrocchiale, senza riuscire così a dare il giusto profilo ai suoi compiti ministeriali" (Ivi, p. 489).
Alla base c'è la sempre ritornante difficoltà di conciliare dimensione carismatica e gerarchica della Chiesa: se si accentua l'una, si annulla l'altra. Fino al Vaticano II si era marcato fortemente quella gerarchica; dopo, quella carismatica. Gli effetti della prima esagerazione sono visibili nella storia antica e recente; quelli della seconda li abbiamo sotto gli occhi, al presente, con gruppi laicali ancora non ben preparati e che, con tutto ciò, assumono atteggiamenti di autogestione, che spesso hanno dell'arbitrario.
E così anche oggi "si può notare una tendenza alla riclericalizzazione del ministero... con la tendenza a ricadere in una Chiesa fatta di chierici e laici" (" li Regno" ib.) in posizione frontale e non in quella di vera comunione.
La distinzione fra i due stati di vita ecclesiale garantisce una complementarietà feconda di risultati; la contrapposizione azzera il meglio della vitalità che Cristo ha donato alla sua Chiesa, attraverso la parola e i sacramenti.